Beatrice Venezi “direttore”: l’opinione delle Consigliere di Parità umbre

beatrice venezi

Beatrice Venezi a Sanremo ha rifiutato l’appellativo di “direttrice d’orchestra”: il monito delle Consigliere di Parità umbre.

“Esiste ciò che si nomina, non si nomina ciò che non esiste”. A dirlo sono le Consigliere di Parità dell’Umbria, Monica Paparelli (Consigliera Regionale), Giuliana Astarita (Provincia di Perugia) e Maria Teresa Di Lernia (Provincia di Terni) a seguito della scelta fatta sul palco di Sanremo da Beatrice Venezi di farsi chiamare “direttore d’orchestra e non direttrice”. Nella Giornata dedicata alle donne con convinzione le Consigliere tornano a sottolineare l’importanza di usare la lingua italiana al femminile.

“Il messaggio offerto da una donna di talento come la Direttrice d’orchestra Beatrice Venezi, da un palco così prestigioso e popolare come quello del Festival di Sanremo, non può che essere letto come un duro colpo inferto alle parità di genere che vede nell’uso della lingua, quando non rispettoso delle differenze di genere, una delle forme di discriminazione più diffuse e, allo stesso tempo, meno percepita come tale. Eppure, la riflessione sul sessismo nel linguaggio è, possiamo dirlo, risalente nel tempo. Parte negli anni ’70, quando i movimenti femministi cominciano ad acquisire la consapevolezza dell’androcentrismo linguistico, passa per il noto contributo di Alma Sabatini che, nel 1987, con il suo fondamentale testo ‘Il sessismo nella lingua italiana’, analizza il fenomeno del nostro Paese, fino a giungere, tra l’altro, alla Direttiva sulle misure per attuare parità e pari opportunità tra uomini e donne nelle amministrazioni pubbliche del 2007, emanata per attuare la direttiva 2006/54/CE del Parlamento Europeo, che prescrive a tutte le amministrazioni pubbliche di utilizzare un linguaggio non discriminatorio in tutti i documenti interni ed esterni di lavoro. Così, sebbene sia indubbio che le donne stiano acquisendo maggiore partecipazione alla vita civile, raggiungendo posizioni e incarichi un tempo inimmaginabili, c’è ancora una certa resistenza a riconoscere tali posizioni e chiamarle con il loro nome. Si finisce così per usare ancora cariche istituzionali e titoli professionali riferiti a donne declinandoli al maschile, attribuendo a tale maschile una falsa neutralità.

Spesso sono proprio le donne a non accettare la declinazione al femminile del titolo professionale posseduto o dell’incarico rivestito, invocando modelli linguistici maschili nella convinzione che adottarli equivalga a raggiungere uno status dotato di maggior considerazione sociale. Tutte queste resistenze non poggiano su ragioni di tipo linguistico, perché la grammatica italiana, che di norma richiede il genere grammaticale femminile per tutto ciò che ha un referente umano femminile, non impone affatto l’uso del maschile “non marcato” per incarichi o funzioni, ma sono solo la conseguenza di una cultura patriarcale che imprigiona tutti e tutte in stereotipi di genere che, anche in attuazione della Convenzione di Istanbul in materia di prevenzione e lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, abbiamo il dovere di demolire. Questo atteggiamento rivela, invero, soltanto una concezione ormai obsoleta della parità, quella che richiedeva alla donna di omologarsi all’esempio e ai dettami maschili, quando parità non vuol dire adeguarsi all’uomo, da intendersi come modello, regola, ma reale possibilità di pieno sviluppo e realizzazione per tutti gli esseri umani nelle loro diversità. L’abitudine a nominarsi avvocato, sindaco, architetto, direttore, anche da parte delle donne che ricoprono detti ruoli e funzioni, nasconde la presenza delle donne, le priva di visibilità, poiché ciò che non si dice o non ha un nome, alla fin fine, non esiste.

È quindi ora di usare termini come direttrice, funzionaria, avvocata, ministra o chirurga, ricordando che le parole risultano ‘brutte’ e cacofoniche solo perché non siamo abituati a sentirle, solo perché per anni erano pochissime le donne ad esercitare l’avvocatura, l’ingegneria, praticare la politica e assumere responsabilità di governo, mentre tante ad essere casalinghe, operaie, cameriere, segretarie.

Dal momento che la lingua può anche contribuire a modificare il nostro modo di vedere le cose, l’uso dei femminili può davvero servire per rendere più normale la presenza delle donne in certi ruoli, soprattutto apicali, e favorire la creazione di identità paritarie che sono alla base della creazione di una società più equa e, per l’effetto, libera dalla violenza che si abbatte sulle donne.

Come Consigliere di Parità del territorio umbro è questo il messaggio che portiamo da sempre, in tutte le sedi, dalle scuole alle associazioni di categorie, pur registrando le evidenti difficoltà che persistono nell’evoluzione del linguaggio di genere.

Non cesseremo dal promuovere, con maggiore impegno, quei principi di uguaglianza, di opportunità e di non discriminazione propri del nostro mandato e, per quanto è di nostra competenza, anche nell’esercizio delle nostre funzioni consultive e moratorie rispetto alla pubblica amministrazione, favoriremo la definizione di prassi virtuose che possano adeguatamente rappresentare le donne nei ruoli in cui sono già ampiamente presenti, al fine di contribuire ad una narrazione equa e rispettosa delle donne che ancora rimangono sottorappresentate nel discorso culturale italiano”.

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